Via del Sale atto II: il racconto e le immagini
Dove eravamo rimasti?
Ah si, al terzo ahimè di una
soleggiata mattina di metà Novembre, in partenza per la Via del
Sale. Beh, avete intuito ormai che non è stata esattamente la
spensierata scampagnata che avevamo ipotizzato, e può quindi esserci
miglior modo per iniziare un'avventura che perdere il treno? Io penso
di no, e deve averlo pensato anche il simpatico capotreno che ha
deciso di non aspettare 5' la coincidenza da Torino, unica ragione
dell'esistenza di una stazione nella ridente Fossano.
In ogni modo eccoci qui, giunti
all'imbocco del Tunnel di Tenda (complice un autostop) con due ore di
ritardo e più solo tre ore di luce a disposizione.
Ore 14. Dal tunnel saliamo per
sentierini ripidi e poco tracciati fino al Col di Tenda, dove ci
aspetta la ex-militare con i suoi bellissimi panorami ed una
piacevole sorpresa: la larga e agevole strada che ci aspettavamo è
si più sicura dei sentierini del crinale, ma è anche diventata un
balcone su cui la neve si è potuta allegramente depositare.
Sulla Via del Sale |
Una lunga striscia bianca sul fianco della montagna |
Il Fort Pepin (deviazione non prevista) |
Con il
buio alle porte, alcuni tratti tecnici su nevaio ed un ulteriore
errore di percorso a metà del primo pomeriggio di cammino stiamo già
affrontando momenti di sconforto. Ma il paesaggio è magnifico, la
neve si fa più compatta e così ci addentriamo nella notte,
mantenendo sempre attiva la conversazione e confortati dall'idea di
non dover dormire in tenda a 2200m, ma di avere un tetto per la
notte.
Tramonto sulla Via del Sale |
Ore 21
Infreddoliti e
stanchi arriviamo finalmente al Rifugio Don Barbera, chiuso ma con un
locale invernale sempre aperto per gli audaci avventori della bassa
stagione. Fin dai tempi dell'AltaVia mi sono espresso duramente
contro la mancanza di strutture sull'Appennino Ligure (pochissimi
bivacchi, qualche rifugio disponibile solo pagando e
prendendo/riportando le chiavi chissà dove, qualche rifugio aperto
ma giustamente solo pochi mesi l'anno e certo non economico), quindi
non potevo non commuovermi nel trovare un rifugio con un locale
invernale dotato di luce, acqua e con letti e coperte pulite. Una
perla ed uno spunto su cui riflettere.
E fu sera e fu
mattina. Secondo giorno.
Dopo il meritato
riposo eccoci pronti a partire, ci aspetta una lunga giornata ma
priva di grandi dislivelli, fatta eccezione per la dolce salita al
Saccarello. La giornata è perfetta e dopo una risalita iniziale la
strada scende dolcemente e si addentra nel bosco, la neve scompare
quasi del tutto e si cammina di buon passo, ci concediamo qualche
breve pausa per rilassare le spalle (con tenda ed acqua lo zaino
arrivava a 14-15kg) e ci fermiamo a pranzo poco prima del Saccarello
per spezzare la salita. Pane, formaggio e cotognata per ristorarci e
poi via, alla conquista della vetta e della nostra cara Liguria. Ai
nostri piedi un mare di nebbia, sventoliamo gloriosamente la bandiera
Savoia per celebrare la nostra cavalcata. Tutto sembra andare bene.
Il bosco delle navette |
I primi problemi
però sono dietro l'angolo, con un dolorino al ginocchio di Filippo
che si manifesta ad inizio discesa e ci convince a tornare sulla
militare invece di fare la direttissima dal Saccarello: una via
decisamente più ripida ma che ci avrebbe risparmiato parecchio
tempo. La discesa così diventa molto dolce e molto lunga e, tra
tempo perso in foto ed in allungamenti di percorso, il tramonto ci
coglie quando siamo ancora lontani dalla meta odierna. Ma meglio
camminare più a lungo sani che buttarsi giù da un sentierino
scassa-ginocchia.
Il tramonto tinge la nebbia di rosso |
Ai piedi del
Saccarello oltre alle tenebre ci aspetta una fitta nebbia, valutiamo
l'ipotesi di uno stop anticipato ma di fatto continuiamo a
proseguire, rincuorandoci col pensiero di un fuocherello intorno a
cui cenare, e la strada lentamente riprende a salire. Il tempo passa,
risaliamo gradualmente verso i 2000m e la stanchezza, fisica e
mentale, inizia a farsi sentire. Filippo lamenta qualche
indolenzimento, e anche le mie caviglie non sono felicissime degli
scarponi nuovi. Di acqua non c'è l'ombra, così riempiamo una
borraccia di neve. All'ennesimo guardare la cartina e accorgerci di
non essere dove credevamo gettiamo la spugna e piazziamo la tenda
praticamente in mezzo alla strada. Filippo ha nausea e le gambe ko,
io voglio solo levarmi gli scarponi perciò mandiamo a monte il
fuocherello e ci infiliamo lesti nei sacchi a pelo, senza nemmeno la
forza di accendere il fornelletto per cucinare. Io mangio un paio di
barrette, Filippo succhia della neve (e del genepy, scoprirò poi) e
collassa. Si sta rivelando tutto più difficile del previsto ed il
morale è basso, ma riserviamo qualsiasi pensiero e decisione alla
mattina successiva, dopo un sonno ristoratore.
E fu sera e fu
mattina. Terzo giorno.
Colle
Bertrand-Testa d'Alpe
Finalmente l'alba,
dopo una notte fredda e scomoda. Un po' di tè per scaldarci,
attendiamo che i primi passi ci diano un verdetto, ma i primi dati
sono poco incoraggianti: appena sveglio, Filippo ha una frequenza
cardiaca che sfiora i 120 battiti. La conferma del suo stato di
salute arriva poco dopo, le gambe lo hanno abbandonato, cammina a
fatica.
Fortuna vuole che
ci troviamo poco sopra al Rifugio Allavena, nonché uno dei pochi
punti raggiungibili in auto di tutto il percorso. Così percorriamo i
due chilometri di discesa fino al rifugio nella bellezza di un'ora e
un quarto, solo per trovarlo ovviamente chiuso.
Finiti
sono i roboanti proclami di solo due giorni prima, lontani i ricordi
delle bandiere sventolate sulle vette appena conquistate, per
rimanere in tema bellico solo una frase si addice a questa tragica
ritirata: “I resti di quello che fu uno dei più potenti
eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli
che avevano discese con orgogliosa sicurezza”
(Dal
bollettino della Vittoria, 4 Novembre 1918)
Giunti al rifugio
Allavena, riusciamo a contattare Genova e, dopo un pranzo anticipato,
troviamo due escursionisti che tornano verso Ventimiglia.
Ci sono tante cose
che mi sono passate per la testa in quelle ore, tanti pensieri che mi
sono portato dietro per giorni, dopo aver scelto di proseguire da
solo. In altre situazioni (come l'AltaVia) avrei probabilmente dato
la precedenza alla relazione rispetto alla sfida. Ma questo
era il mio progetto, la mia avventura e, soprattutto, la mia tesi.
Per motivi meteo e di disponibilità dell'attrezzatura, non avrei
avuto una seconda occasione. Avevamo superato le parti più dure,
Ventimiglia sembrava così vicina ormai che tornare a casa sarebbe
stata una sconfitta difficile da mandar giù.
Filippo lo sa e lo
capisce, così gli lascio qualche oggetto per liberarmi di un po' di
peso tra cui (al pensiero “ormai Ventimiglia è laggiù ed i miei
piedi si sono adattati”) le scarpe di ricambio.
Un tratto del sentiero degli Alpini |
Così sono circa
le 13 quando ci separiamo a malincuore e riprendo la mia strada, con
i tempi un po' stretti e con i tendini d'achille più doloranti di
quanto non mi fossi accorto la mattina. Invece di riprendere l'Alta
Via dei Monti Liguri opto per la variante bassa: lo spettacolare
Sentiero degli Alpini, scavato nella roccia del versante italiano dei
monti Toraggio e Pietravecchia. In realtà ne faccio solo la metà
ancora agibile (l'altra è chiusa ormai da qualche anno per frana),
ma è tanto bello quanto difficile, specialmente con zaino e tenda.
Da sotto il Toraggio mi ricollego all'AVML, e caviglie e tendini mi
fanno notare che è ancora un ambiente alpino ed il sentiero resterà ostico per parecchi chilometri. E' già metà pomeriggio
quando scendo sotto i 1500m ed il paesaggio inizia a farsi più dolce ed
appenninico. Ad un certo punto L'Alta Via presenta due varianti, una
bassa, già percorsa nel 2015, ed una alta, più panoramica. Per
cambiare percorso e nella speranza di riuscire a raggiungere il
bivacco Testa d'Alpe per la notte (sempre ammesso che esistesse,
visto che non avevo trovato informazione alcuna se non una menzione
su una vecchia cartina) opto per la variante alta.
Giunto il buio, mi
trovo con i tendini d'achille ko, le caviglie livide, mentre continuo
a perdere l'orientamento cercando di operare un taglio strategico di
percorso con una cartina troppo poco dettagliata (promemoria: mai
fidarsi delle 1:50000), un ventaccio gelato, la frontale scarica e le
pile di ricambio che non funzionano. Impreco da solo nella notte,
eppur mi muovo e cerco di non perdermi d'animo. Alterno la torcia del
telefono con la frontale (per fortuna anche ricaricabile) e ritorno
sull'AVML dopo aver vagato inutilmente per circa un'ora (prima volta
nella vita che mi viene utile anche la bussola). Supero la Testa
d'Alpe, rinuncio al bivacco e scendo il più possibile cercando
riparo dal vento. Sono le 20.30 circa quando rinuncio alla ricerca di
uno spiazzo decente e pianto la tenda in mezzo al sentiero. Un'altra
giornata molto più tosta del previsto. E sono tre.
E fu sera e fu
mattina, quarto giorno.
Testa
d'Alpe-Ventimiglia
Disagio con pois |
Rimettersi gli
scarponi è una sofferenza, smontare la tenda da solo col vento mi fa
già perdere la pazienza. Riparto, e poco dopo incontro il paletto
n°21 dell'AVML. Inizio il conto alla rovescia e cerco di fare due
calcoli sull'arrivo previsto, dopo una prima mezz'ora il sentiero si
trasforma in una larga carrareccia, sono indolenzito ma ottimista,
ormai è tutta discesa. O forse no?
Negli ultimi
dieci/dodici chilometri prima di Ventimiglia il paesaggio cambia
ancora, dai sentieri sassosi tra i pini marittimi si passa a più
soleggiate colline e qualche vigneto. Stavo per scrivere dolci
colline, ma non c'è niente di dolce in quegli eterni ed inaspettati
saliscendi che hanno portato all'esasperazione i miei tendini e la
mia pazienza.
cambio di paesaggi, il mare è vicino |
Ad un certo punto
certe cose smettono di essere divertenti. Che sia una gara, un
trekking, una spedizione, un'ascesa, un viaggio: ad un certo punto
vuoi solo arrivare. Specialmente se ci si mette di mezzo il tempo: un
cancello entro cui stare in una gara, un record da battere, o anche
solo un'idea che avevi sul tuo orario di arrivo, un appuntamento con
qualcuno che non riesci più a rispettare.
La sopportazione
del dolore nella maggior parte dei casi non è una questione fisica,
ma mentale. Ad un certo punto smette semplicemente di valerne la pena, di essere
divertente.
Eppure si va
avanti comunque, perché è così che deve funzionare. Se la voglia,
il comfort, il divertimento fossero l'unico nostro metro di
riferimento probabilmente non ci alzeremmo nemmeno dal letto la
mattina. E soprattutto, nella vita non ci si può ritirare. Vai
avanti e basta, convivendo con le salite e le discese, con i dolori e
le gioie. Così sono arrivato, dolorante arrabbiato con i poco
veritieri paletti dei km e per le salitelle inaspettate, all'ultimo
chilometro sopra Ventimiglia. Ho visto la città, la meta, e tutto è
sparito. Mi sono buttato giù quasi di corsa, ed in un attimo tutto
era finito. Ed era già tutto così lontano: la fatica, le spalle
doloranti, il caldo e la sete (si trovano solo due fonti in 120
chilometri), il freddo delle notti, la neve, Filippo, Limone, erano
così lontani da esser quasi dispiaciuto per la fine di questa breve
ma intensa avventura.
Quasi, perché
puzzavo da far schifo.
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