Il primo amore non si scorda mai





Maggio, è arrivata la primavera. Finalmente.
Lontano è l'inverno, lontani i giorni di marzo freddi e piovosi, lontane le pietre ed i “muur” del Belgio, campo di tante battaglie ad aprile.
E' già tempo di gelati e di azzardati, freddi ma liberatori tuffi in mare, è già tempo di Giro d'Italia.
Sarò onesto: da fervente appassionato (oserei dire “credente”) sono convinto che per comprendere davvero cos'è il ciclismo non ci si possa fermare agli spesso noiosi pomeriggi di Giro e Tour. Quando Nibali ha vinto, con un mezzo capolavoro, una altrimenti noiosissima Milano-Sanremo è stato un fiorire di elogi al suo coraggio contro “un ciclismo sempre più computerizzato”. Niente di più superficiale. Intanto perché per ogni maniacale seguace del misuratore di potenza ci saranno sempre un Nibali che scatta sul Poggio od un Contador che attacca a 60km dal traguardo. Ma soprattutto, perché il ciclismo si respira nelle classiche, non (solo) nei Grandi Giri. Perché lo spirito di questo sport passa per le stradine dissestate e ventose del nord Europa, e per parlare di ciclismo bisogna bere birra trappista e conoscere parole strane come Omloop het nieuwsblad, Muur van Geerardsbergen, Carrefour de l'arbre e côte de la Redoute. Il ciclismo “antico” evocato da alcuni giornalisti sulle strade di Francia era già morto venti e più anni fa, ai tempi del dominio di Indurain, e senza nemmeno il bisogno di un misuratore di potenza.
Eppure in Belgio - ed in quella perla italiana che è la Strade Bianche”- ancora soffia il vento. Non c'è computer che regga sul pavé, non esistono algoritmi per vincere sui muri, solo cuore e gambe. Date retta a me: se volete vedere una vera corsa, guardate il Giro delle Fiandre (la Ronde van Vlaanderen per gli intenditori) e la Parigi Roubaix, non la volatona sugli Champs Elysées.

Il pavé della Foresta di Arenberg (Parigi-Roubaix)

Cancellara si invola verso il traguardo sul Muur van Geerardsbergen (Ronde van Vlaanderen)

Eppure ogni anno a Maggio,tornato il caldo, finite le pioggia e posatasi la polvere sulle pietre, le mie granitiche convinzioni sul “vero” ciclismo si erodono fino – quasi – a sgretolarsi. Inizia tutto con una piccola crepa, causata dalle pubblicità che si infiltrano come gocce d'acqua sui giornali, in tv e su facebook. Poi si sa, con la primavera rinascono i colori, così compaiono le prime timide sfumature di rosa, sbocciano i fiori ed i palloncini, si colorano le fontane. Compaiono le prime anticipazioni, il borsino dei favoriti, le tappe da tener d'occhio, ed è già conto alla rovescia tra hashtag improbabili (#pazzidipozzo, il mio preferito) e pubblicità sulla RAI.

E così ci ricasco, 49 settimane dopo aver imprecato contro le ultime noiose tappe e le mortifere cronometro del Giro100 sono di nuovo qui, pronto a seguire questa ennesima Corsa Rosa. Perché in fondo il Giro è LA corsa, per gli italiani. Tutti, appassionati e non, lo conoscono, tutti in fondo ne sentono parlare anche se non lo guardano, lo vanno a vedere se passa sotto casa. Perché tutti noi siamo cresciuti coi racconti e le immagini del Giro, con Coppi e Bartali che si passano la borraccia, con Merckx e Gimondi eterno secondo, con Pantani che getta la bandana e danza sui pedali e con gli improbabili completini e le impomatate di Cipollini. Perché il ciclismo è sport del popolo: non chiede un biglietto e non mette barriere tra chi lotta e chi incita, e si corre in uno stadio naturale unico al mondo, la nostra terra.
Terra tanto bella – vi sfido a trovare paesaggi simili in altre corse – quanto aspra e crudele. Che ti accoglie con il sole un caldo pomeriggio palermitano per poi abbandonarti in una tempesta di neve tra le Dolomiti. E questo è l'ingrediente magico del Giro, che lo rende tanto indigesto a chi ha ambizioni gialle a Luglio: è una corsa dura, logorante, difficile da controllare, imprevedibile tanto nel meteo quanto nelle strade strette e piene di curve, negli strappi e nelle discese a ridosso del traguardo e nei terribili tapponi di montagna.
E per questo ogni anno ci si ritrova davanti al televisore anche quando mancano cento chilometri al traguardo, solo per amore. E per amore al Giro si perdona tutto, alla fine: una lista partenti sì più internazionale di anni fa, ma mai paragonabile al parterre de roi del Tour; le improbabili partenze dall'estero; le discutibili scelte sulle squadre invitate; i ridicoli siparietti RAI a corollario della corsa, con personaggi che ahimè di ciclismo proprio non se ne intendono; le sparate di Beppe Conti, i “passo” di Marco Saligari e l'ormai scadente qualità giornalistica della Gazzetta. Perché ci potranno essere corse più importanti e con corridori più forti al via, ma nessuna è come il Giro per percorso e passione. Ed i professionisti lo sanno ormai, che correre in Italia è sempre qualcosa di speciale. Che salire a zig-zag sullo Zoncolan - la salità più dura d'Europa- scalare il Gavia ed il Mortirolo, passare a fianco il Duomo di Milano od il Colosseo, significa correre in due muri di folla e che la fatica, anche solo per un attimo, passa in secondo piano. Perché il Giro è il primo grande amore di ogni appassionato italiano, è il sogno di ogni bambino che passa in bicicletta i pomeriggi d'estate, è l'unica chance di non avere 20 pagine di calcio sulla Gazzetta prima di arrivare allo sport – e chi vuole intendere intenda -, è il riscoprirsi tutti nostalgici di Pantani ogni 14 Febbraio, il temporaneo lasciar da parte i commenti sui ciclisti tutti dopati (perché ho un amico di un cugino della moglie del padre del mio cane che conosceva uno che correva e ha dovuto smettere perché non voleva doparsi). Il Giro è attesa, speranza, passione. Lacrime e sangue, terra e pioggia, sole e neve, bestemmie e santuari, noia e adrenalina: è una perfetta ed italianissima contraddizione, è un amore infinito davvero perché si sa, il primo amore non si scorda mai.


Il "Trofeo senza fine", simbolo del Giro d'Italia

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