Di Pietra e di Fango
Partire è un po' morire, si dice. E la Porte di Pietra era, è, innanzitutto questo: un viaggio, un lungo anello in luoghi tanto dietro l'angolo quanto sperduti e selvaggi e, soprattutto, dentro sé stessi. E d'altronde non ci si potrebbe aspettare niente di meno da un pioniere italiano del trail running come questa gara. E' ultra trail delle origini, una corsa dura ma senza la ricerca (ora forse troppo di moda) dell'estremo: 71 chilometri di sentieri a tratti docili e a tratti cattivi, selvaggi e, soprattutto, in autosufficienza alimentare. Ovvero niente cibo e ringrazia se trovi dell'acqua, che la natura non è un ristorante con pasta, minestra e crostatine. Insomma, non una gara qualsiasi.
Così,
la curiosità, la voglia di alzare l'asticella e la ricerca di
un'esperienza nuova più che di una gara a perdifiato hanno avuto la
meglio sulle incertezze sulla preparazione, sui piccoli ma ricorrenti
infortuni e passi indietro degli ultimi mesi e anche sui dubbi e
sugli immancabili acciacchi pre-partenza. Perché il fascino di
queste gare sta proprio qui: non si è mai davvero pronti. Non lo è
chi parte con il solo scopo di arrivare in fondo, perché la
preparazione tra lavoro, famiglia e mille imprevisti non sarà mai
ideale. Ma non lo è nemmeno chi parte per vincere, perchè alzare
l'asticella significa comunque portare il proprio fisico al limite, e
chi troppo in alto sal...
Alla
Porte di Pietra, così, l'avventura incontra la competizione, la
prudenza ed il rispetto per la distanza incontrano un percorso che
spesso invita a correre, la conoscenza di sé incontra il volersi
superare e l'uomo finalmente re-incontra la natura incontaminata,
pura, aspra.
Esiste
qualcosa di più bello, in fondo?
Forse
no, mi rispondo quando parte la
musica prima della partenza: “Promontory”, la colonna sonora de
“L'ultimo dei Mohicani” è il tassello che mancava per dare un
senso speciale a questa gara. Una canzone che ho indissolubilmente
legato ad un luogo speciale (Cogne) a cui, ahimè, è legato anche
l'addio al sogno Tor des Geants. Un addio che, coincidenza, è nato
proprio un anno fa, quando alla Porte di Pietra non ci sono nemmeno
arrivato, fermato pochi giorni prima da un infortunio che avrebbe poi
fatto crollare come un castello di carte la mia preparazione per il
Tor. Dopotutto l'avevo detto, che questa gara è un viaggio anche
dentro sé stessi, un lungo anello per cui ci ritroviamo al punto di
partenza, pronti a correggere, quasi vendicare, i nostri errori.
Così
chiudo gli occhi, ascolto il countdown e la musica e respiro, perché
in fondo lo so, che tutti i propositi sul viaggio, sul prenderla con
calma e rispettare il proprio fisico andranno a farsi benedire tra
pochi minuti. Una lunga giornata di corsa davanti, nessun ristoro,
meteo poco benevolo ed un totale salto nel buio in termini di
rendimento su un simile sforzo: esiste qualcosa di più bello, in
fondo? Forse no.
Andare avanti nel racconto ha poco senso, diventerebbe una mera
cronaca di gara poco interessante e troppo egocentrica. Perché
cavolo, le gare lunghe sono un concentrato di orgoglio, di
egocentrismo e di maglie “finisher”che sfociano nel “guarda
quanto ce l'ho lungo”, altro che sfida con sé stessi. Per questo
sono generalmente contrario a resoconti di corse e a qualsivoglia
citazione di posizioni, tempi, passi ecc su questo blog. Sto già
facendo una mezza eccezione con la Porte di Pietra, perché l'ho
cercata e voluta come un viaggio, una sfida dopo gli infortuni e le
delusioni degli ultimi anni ed un avvertimento a me stesso
sull'andare avanti. E nonostante questo è stata in primis una gara,
ed anche piuttosto tirata. Perché è effettivamente un percorso
corribile, che ho sofferto più mentalmente che fisicamente.
“Compose, confident, compete” il mantra che avevo imparato per le
grandi distanze. Uno per ogni terzo di gara. Beh, vediamo. Nel primo
terzo cercavo di mordere il freno e iniziavo a montarmi la testa,
perché per una volta non avevo il cuore in gola. Nel secondo terzo
sono riuscito a resistere al “chi me l'ha fatto fare”, ma non al
domandarmi se non fosse il caso di tornarsene su distanze più brevi
ed intense ed abbandonare questa follia delle lunghe distanze, che
poi soffri come un cane anche se vai piano e non sei nemmeno a metà
strada. Ad un certo punto, però, mi sono ritrovato miracolato ed
ancora sano (di fisico e di mente) grazie al passaggio su un vecchio
amico, ultimo e non ancora nominato motivo per cui questa gara aveva
un valore speciale nel mio immaginario: il Monte Antola, che spesso
ho schernito per la sua difficilmente comprensibile popolarità ma
che mi sono riscoperto apprezzare sempre più negli ultimi anni,
proprio come un vecchio amico che ogni tanto bisogna andare a
trovare.Valore aggiunto del giorno: era l'ultimo versante che mi
mancava, quello affrontato alle Porte! Quindi, superata la fioritura
dei narcisi ed usciti dai rincuoranti luoghi noti eccomi all'inizio
dell'ultimo terzo, tutto sommato ancora in grado di trarre gioia
dalla vita e dalla corsa. Ed ecco la giusta punizione per la mia
ubris: tuoni, lampi, fulmini e saette all'orizzonte. Su di me
solo pioggia e tanto, tantissimo fango per le ultime ore di corsa,
per fortuna. Ed aggiungo, tutto sommato, finalmente. A parte qualche
scivolone in discesa, ho amato molto più i saliscendi sotto la
pioggia dell'ultima parte che l'infinita ma calda e troppo troppo
corribile salita all'Antola della prima metà di gara. Volevo
un'avventura? Eccomela servita, con tanto di quel fango di contorno
che per tutta la notte successiva ho sognato di scivolare in discesa!
Che altro dire, sono arrivato in fondo? Si, e tutto sommato messo
meglio del previsto. Sono arrivato sano? Certo che no, qualche
problemi dagli ultimissimi chilometri non potevo non portarmelo a
casa, ma di questo infortunio spero di non essere qui a parlare, tra
un anno!
Mi è passata la voglia di far queste ca****e, quindi? Certo, ma mi è
anche tornata, sparita e ritornata innumerevoli volte nel corso della
gara e dei giorni successivi, quindi credo che questo sia solo
l'inizio di una serie di sfortunati eventi di tofu, salite e pois.
Perché in fondo, partire è un po' morire, rispetto a ciò che si
ama, poiché lasciamo un po' di noi stessi in ogni luogo ad ogni
istante. (Edmond Haracourt)
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