I puntini sulla I





I come impresa, quella compiuta sabato a Vienna. Ma I sta anche per Ineos 1:59, il nome del progetto nato per abbattere il muro delle 2 ore nella maratona. Un'impresa incredibile, inimmaginabile fino a pochi anni fa.
E' così, che piaccia o no: sabato è stata scritta una pagina indelebile nella storia dello sport. Per anni ci si è interrogati se fosse umanamente possibile scendere sotto le due ore nei 42,195km. Persino numerosi studi scientifici si sono interrogati al riguardo e molti di essi sono arrivati alla medesima conclusione: “not anytime soon”, non tanto a breve.
Poi, nel 2017, è arrivata la Nike con il suo Breaking 2 project e scarpe sempre più avveniristiche (e brutte) ed ha provato a rompere quel muro, a Monza. Ci sono andati vicini, molto più di quanto pensassero in molti e, lo ammetto, molto più di quanto sperassi io.
Perché diciamocelo, ci riempiamo la testa di slogan sul volere è potere, sognare in grande, superare i propri limiti ecc ma la verità è che i limiti ci piacciono. Perché ci danno sicurezza, e c'è un non-so-che di romantico in una vetta inviolata che fa quasi desiderare che quel limite, quel record, quel muro resista ancora, per restare un altro po' nei nostri sogni, nelle nostre fantasie.
Quindi mi sono interrogato a lungo su quanto essere contento di questo nuovo tentativo, che stavolta sembrava certo riuscisse. Un record studiato a tavolino, un tempo non omologato, una gara non gara. In fondo una delle cose belle della maratona è che il “record del mondo” è un'invenzione recentissima, che poco ha a che fare con il fascino eterogeneo di questa disciplina in cui non c'è una gara uguale all'altra.
Un grosso esperimento a cielo aperto, quindi. Tutto studiato alla perfezione per rendere possibile ad un uomo il correre sotto le fatidiche due ore una maratona. E' stato bello, ed ha funzionato.
Omologato o meno, romantico o no, il muro è crollato, è stato dimostrato che è possibile correre una maratona a 2'50”/km. L'impossibile è diventato realtà, e ha consegnato Kipchoge alla storia.

Quindi, lasciando ad altri le discussioni sterili su romanticismo ed ortodossia, la domanda che mi pongo è: ha fatto bene allo sport, alla corsa?
Vediamo.
, perché la ricerca della perfezione non è una cosa negativa.
Lo sport si evolve, come tutto. Per arrivare al massimo bisogna pensare a tutto, non lasciare niente al caso. La perfezione forse non esiste, ma è con la sua ricerca che si cresce. Calcolando esattamente quanti secondi si perdono nelle curve (10 in tutto, in questo caso), la colazione ideale, la scarpa migliore, la distanza ottimale dalle macchine-pacer. Solo così lo sport può crescere.
, perché ha portato visibilità.
Ineos 1:59 è stato prima di tutto un progetto di marketing. Che piaccia o no, ha mostrato come lo sport debba saper stare al passo coi tempi. Dall'utilizzo dei social network prima del tentativo alla diretta youtube di tutta la gara, tutto è stato pensato per ottenere la massima visibilità: arrivare direttamente sul tuo cellulare, senza spese e senza fatica. E ha funzionato, ovviamente. Per una volta la corsa è tornata sulla bocca di tutti. E questa è una visibilità che fa bene ad un mondo in cui, purtroppo, lo sport va in prima pagina solo in occasione degli scandali del doping.

No, perché lo sport in realtà non c'entra.
Nel mondo perché una cosa cresca, ahimè, servono soldi. Lo sport non fa eccezione. Per avere ricerca, per avere visibilità, per crescere servono investimenti. E allora ecco che il successo di questo progetto è fondato sul suo stesso fallimento, suo e dello sport tutto.
Perché non è davvero l'amore per lo sport che porta Jim Ratcliffe, uomo più ricco del Regno Unito (ma prontamente trasferitosi a Monaco per ovvie ragioni fiscali dopo aver sostenuto la Brexit) e patron della Ineos, gigante petrolchimico e terzo produttore europeo di plastica, ad invadere sempre più prepotentemente il mondo dello sport. Si chiama greenwashing, e non è altro che un tentativo di farsi pubblicità costruendo un'immagine di sé ingannevolmente positiva, per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi per l'ambiente dovuti alle proprie attività.
Con il dovuto rispetto per l'eccezionale gesto atletico, per me questa sfida avrebbe avuto un sapore migliore se avesse avuto un altro nome.
Mi capita spesso di sentir dire che lo sport non deve essere politicizzato, ed in parte è vero: non può diventare strumento di azioni politiche di parte. Ma per quanto tempo ancora il mondo dello sport ha intenzione di girarsi dall'altra parte, di chiudersi in una bolla facendo finta che i problemi del mondo non lo riguardino? Come si può accettare che diventi il giocattolo di chiunque lo utilizzi solamente per pulirsi le mani? Come possiamo ancora pretendere che lo sport sia portatore di messaggi educativi, se non ci si fa scrupoli a ricevere soldi da personaggi o aziende discutibili, se chi lo dirige non fa altro che organizzare gare in paesi desolati (e desolanti) e di mettere totalmente in secondo piano gli atleti stessi?

Nessun uomo è un'isola, ed è il momento che anche lo sport cessi di fingere di esserlo.




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