Chiedimi perchè (non) corro
“Sometimes you just do
things”. E' il mantra di Scott Jurek, uno degli ultramaratoneti
più forti della storia e una delle molle che mi han spinto a diventare vegetariano. A
volte le cose le fai e basta.
Perché corro, perché faccio sport? Perché macino decine e decine di chilometri in bici,
di corsa o camminando?
Me lo chiedo raramente, o
meglio: immagino la risposta come se la domanda me la ponesse
qualcun'altro. Poi, nei rari casi in cui questa domanda arriva
davvero, perdo l'attimo, scrollo le spalle, dico qualche banalità
pensando che la risposta è troppo complicata e che forse non
interessa davvero, un po' come quando mi vien chiesto perché sono
vegetariano.
A volte le cose le fai e
basta.
E' vero. Come per un
sacco di altre cose, quando entri in una routine smetti di chiederti
davvero perché lo fai. E' quasi una dipendenza, una parte di te.
Competizione, riscatto,
felicità, controllo del peso, antistress, masochismo, socialità
(perché si, anche la corsa e il ciclismo sono sport di squadra!), isolamento,
meditazione, vanità, egoismo... ci sono mille motivi per cui una
persona fa sport e spesso si uniscono e si fondono tra loro.
Il problema è che, come
per tutte le dipendenze, se smetti stai di merda.
E siccome lo sport, e la
corsa è particolarmente crudele in questo, non è tutto rose e
fiori, non sei mai tu a decidere di smettere. Anzi, proprio quando ti
sembra di andare forte, eccolo che arriva: l'infortunio.
Una pugnalata nella
schiena dal tuo fisico, di cui ti fidavi tanto e che invece ti
abbandona così, con un biglietto sul frigorifero e le scarpe nuove
ancora nell'armadio. Vi eravate tanto amati ed invece ti trovi, dopo
mille programmi fatti insieme, sul letto a guardare il soffitto.
Solo.
Cosa succede quando il tuo fisico ti lascia? E soprattutto, cosa c'entra questo con il perché corro?
Ve lo spiego così: ecco a voi le cinque fasi di reazione ad un infortunio, secondo me.
1) NEGAZIONE/RIFIUTO
Per primi, specialmente per
gli infortuni da usura come nella corsa, partono i “non è niente”,
“è solo un dolore passeggero”, “riesco a correrci sopra”
“non c'è certo bisogno di farmi vedere”. Poi la negazione vera e
propria: “non può esser successo a me”, “non è possibile”
“non puoi lasciarmi proprio ora”, “domenica prossima abbiamo
una gara da fare, ho già prenotato l'albergo, solo io e te”.
2) RABBIA
La negazione è la fase
più irrazionale e, per il fisico, la più pericolosa. Sottovalutare
un infortunio può significare rallentare notevolmente la guarigione.
Eppure è un meccanismo di difesa semplicissimo, il nostro cervello
prende tempo e ci protegge per cercare di assimilare la realtà poco
a poco.
2) RABBIA
[parte censurata]
Se esiste un paradiso spero che nei requisiti di accesso vi sia un'eccezione per quanto pronunciato o fatto in questa fase.
Se esiste un paradiso spero che nei requisiti di accesso vi sia un'eccezione per quanto pronunciato o fatto in questa fase.
Tra un'imprecazione e l'altra, parte la fase del “perché a me”, in cui cerchiamo un colpevole e scarichiamo tonnellate di bile verso chi ci sta intorno. Attenzione: fase ad elevato rischio di rottura immobili e/o relazioni sociali.
[parte censurata]
3) NEGOZIAZIONE
Pur di poter cambiare le cose, si prova qualsiasi cosa. Superata la negazione, è il momento in cui apri google in cerca di consigli per quel problema al ginocchio (o di tempi di recupero improbabili) e ne esci con una serie di malattie rare che farebbe invidia al Dr. House. E' la fase del ghiaccio a manetta, dell'arnica, del Voltaren, del Lasonil, di quella pomata scaduta nel '97 che per qualche misterioso motivo è ancora nell'armadietto (e un motivo ci sarà, oh) della tisana al finocchietto, degli impacchi di argilla e del continuo riprogrammare la stagione ripartendo con gli allenamenti la settimana prossima, cosa che regolarmente non avviene.
4) DEPRESSIONE
Superata una settimana di stop, scatta l'allarme. Superate le due settimane, il problema è serio. Oltre le tre settimane, con quell'infiammazione che magari a riposo diminuisce ma che appena provi a correre riesplode, è un bel casino.
Arnica, ghiaccio e antinfiammatori, che li prendo ancora a fare?
La condizione per cui ti sei allenato tutto l'inverno e oltre, chi la ritrova più?
Le gare a cui eri già iscritto? soldi nel cesso.
Tutte le terapie alternative in cui ti eri lanciato perdono di senso e significato.
Ma soprattutto eccolo, il
vuoto. Passi 10-15-20 ore a settimana ad allenarti, spesso è una
cosa tanto meccanica e programmata che non ci pensi nemmeno più. A
volte le cose le fai e basta.
E ora ti trovi 10-15-20
ore vuote. Le sprecherai tutte, una per una. Lo sai.
Il cielo è più grigio,
la città più opprimente, le persone più superficiali ed irritanti.
Perché correvi, forse
continui a non saperlo. Ma lo senti, ora che non puoi farlo.
Era libertà. Era il
vento sulla faccia. Era il sudore sulla fronte, il non pensare più a
niente quando i battiti salgono e parlare diventa impossibile. Era il
silenzio del bosco, la paura del cinghiale, l'invidia del turista. Era l'adrenalina della discesa. Era il selfie dalla vetta. Era il
pensiero che vagabonda, la psicoanalisi che non programmi. Era la
voglia di staccarli tutti, la fame di competizione. Era il caffè al
baretto, i culi della passeggiata mare al sabato mattina. Era
zoppicare per una settimana “ma ne è valsa la pena”, erano le
sbucciature come ferite di guerra. Era il tempo che non passa mai e
che passa troppo velocemente. Era avere degli obiettivi e impegnarsi
per raggiungerli. Era sentirsi vivi.
A volte le cose le fai e
basta.
E solo quando non puoi
più farle capisci perché le facevi.
5) ACCETTAZIONE
Passerà, come tutto. In
un mese, due, quattro. Ma passerà.
E quando sarà passato,
sarai pronto. Più consapevole dei tuoi limiti, dei tuoi problemi. Di
quell'asticella oltre la quale non riesci a saltare. Per ora. Perché il gioco è proprio questo: alzare quell'asticella. Più in su, più
in là. Farà male, te la andrai a cercare. Ma ne sarà valsa la
pena. Cento volte e cento ancora, ne varrà la pena.
A volte le cose le fai e
basta.
“Sei pazzo” è la
frase che mi son sentito dire più spesso, parlando del Tor des Geants. Forse perché mettere etichette è più
facile che capire le cose, le persone.
Così scrivo, per ricordare a me stesso tutti questi inutili perché, e continuo intanto ad immaginare quella conversazione che, forse, non avverrà mai.
Così scrivo, per ricordare a me stesso tutti questi inutili perché, e continuo intanto ad immaginare quella conversazione che, forse, non avverrà mai.
Perché perché perché perché perché... Mi sa che voi sulla terra sprechiate troppo tempo a porvi troppi perché. D'inverno non vedete l'ora che arrivi l'estate, poi d'estate avete paura che ritorni l'inverno. Per questo non vi stancate mai di viaggiare, di rincorrere il posto dove non siete: dove è sempre estate. (Da La leggenda del pianista sull'oceano)
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